Fortitude – Commento al finale della seconda stagione

In collaborazione con blogames.it

Se il primo capitolo di Fortitude, grazie anche alla presenza illustre di Stanley Tucci ed una trama davvero criptica e avvolta in un telo oscuro, era stata avvincente e trascinante; il secondo atto cambia decisamente registro, abbandonando un po’ i misteri terreni del primo copione e tuffandosi in quello che in apparenza sembrava essere legato al sovrannaturale. I paesaggi gelidi ed ipnotici sono rimasti ovviamente immutati, ma la seconda stagione si lega alla prima essenzialmente nel personaggio di Dan Anderssen. Numerosi sono i volti che dopo aver preso parte alla prima stagione, si sono ripetuti anche in questa, ma il loro carisma è stato sostituito con quello di nuovi personaggi ed una nuova storia da raccontare, se vogliamo molto più devastante e disastrosa, che si allaccia alla narrazione precedente solo attraverso il biondo ex sceriffo risorto dalle ceneri.

Fortitude: gelo e stramberie

Anche in questo caso il sipario si era aperto con un omicidio. Un cadavere senza testa che congelava nella neve tempestosa di Fortitude, sotto la luce abbagliante di un’aurora i cui colori lasciavo presagire l’arrivo del male. Ci è voluto un po’ per capire cosa questa scia di cadaveri e sangue rappresentassero, chi ne era il carnefice e a quale scopo agiva.

Il giovane sciamano Vladek si prende tutte le colpe del caso, almeno fino a quando non è stato chiaro che i suoi omicidi servivano a liberare dalle tenebre le vittime, condannate a divenire dei mostri. Il divampare di questa piaga però non aveva esattamente una natura sovrannaturale, bensì era frutto di un tragico e calamitoso virus portato da alcuni tipi di vespe, i cui vermi conducevano i malcapitati alla morte.

Come il miglior Lazzaro, lo sceriffo Dan Anderssen, chi sa per quale ragione, era riuscito a scamparvi. Nonostante il virus gli scorresse meschino nelle vene, la sua vita non solo non era giunta al termine, ma aveva acquistato nuova linfa. Sospeso in un libo di sofferenza, Dan era riapparso nella nebbia cieca della tempesta, dinanzi gli occhi della governatrice Hildur Odegard e di suo marito, novello sceriffo, Eric. Il parassita però aveva fatto ormai di Dan un mostro votato all’omicidio e perfino, nelle battute finali, un cannibale dalla forza sovraumana. Egli è il motivo principale dei guai di Fortitude: tutte gli danno la caccia, a partire dalla fantomatica organizzazione di cui fanno parte sia la dottoressa Khatri con i suoi esperimenti sulla rigenerazione cellulare, sia l’usurpatore governatore e accidentale assassino di Hildur, Erling Munk.

Nessuno però riesce davvero a catturare Dan. Morto purtroppo non serve a nessuno, se non a Vladek che, proprio nel tentativo di debellare la minaccia, perde la vita. L’unico vero vincitore dunque è Dan che, resta orfano della sua amata Elena (tra le altre cose per sua stessa mano), ma si libera di tutti i fantasmi presenti a Fortitude, di tutti i suoi aguzzini e cacciatori, prendendo, proprio nella scena finale, posto alla vacante poltrona del municipio.

Hildur è morta, Eric ha perso sua moglie, Elena non c’è più, stessa sorte è toccata alla dottoressa Kathri e a Erling, niente lieto fine neanche per Michael e Freya Lennox, mentre il giovane Vincent rimane a pregare su un’agonizzante Natalie, a cui è appena stato somministrato il succo di renna, speranza ultima di una sua guarigione.

Bene ma non benissimo…

La particolarità di Fortitude, oltre ad un’ambientazione glaciale e molto dark, era quella di intrecciare più trame, più misteri nello stesso gomitolo. Alla fine, con un po’ di insicurezza e qualche sbadiglio di troppo, bastava tirare il filo giusto per veder dipanarsi la matassa. Stesso tipo di lavoro è stato fatto anche con la seconda stagione. Tutte le trame si legano con grande tempismo a quella principale, di cui però riconoscere l’identità non è stato poi così semplice. Abbiamo individuato in Dan Anderssen il capro espiatorio delle vicende, il comun denominatore dei disagi di Fortitude, proprio perché tutte le storie narrate, in finale si riconducono proprio a lui.

La sceneggiatura, dobbiamo ammetterlo, ci è sembrata un gradino sotto quella della prima stagione. Purtroppo l’inverosimiglianza dei fatti non ha lasciato spazio a grandi acuti, attestandosi comunque sulla sufficienza. La telecamera volteggia tra i fiocchi di neve e il gelido vento con un buon timing, prestando forse attenzioni troppo lungimiranti verso alcune scene. Il grande atteso di questa seconda stagione era senza dubbio Dennis Quaid, chiamato a non far rimpiangere l’estro di Tucci con un personaggio molto diverso, decisamente più umano, più comune,  un uomo che lotta contro la malattia della moglie e che non vuole piegarsi alla crudeltà della natura. Dennis si è comportato molto bene, ma sul suo talento non c’erano davvero dubbi.

L’attore che però si è distinto di più, secondo noi, è Ken Scott nei panni di Erling Munk. Il suo personaggio è un individuo viscido, arrivista, ormai precipitato del baratro senza ritorno della corruzione, con le mani troppo sporche per essere lavate e che sul groppone deve anche impilare un cadavere. L’interpretazione dell’attore scozzese è magistrale, soprattutto nelle scene in cui comincia a perdere colpi, ad uscire di testa. Quando la situazione si fa troppo calda, messo con le spalle al muro, gli occhi dell’attore divengono lo specchio perfetto di un uomo consumato dai propri errori, assorbito in un imbuto in cui mai avrebbe pensato di finire, imbrigliato in una ragnatela in attesa di essere divorato. Complimenti vivissimi a Scott.

In finale, vogliamo segnalare l’ottimo lavoro svolto sull’audio e sulle musiche. La puntualità delle note è sempre impeccabile, ma la bravura nello scegliere il motivo giusto per ogni scena rasenta la perfezione.

Non abbiamo assistito certo ad un capolavoro, ma nemmeno possiamo bocciare in toto questa produzione che, con tutte le probabilità, troverà proprio nella seconda stagione il suo epilogo. Ad ogni modo, con le serie tv, non c’è mai da dare nulla per scontato o per sicuro. Per il momento diamo un semplice arrivederci ad una cittadina tanto piccola e fredda, quanto colma di minacce roventi.

 

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