Uno sguardo più attento a “La Pazza Gioia”, dopo l’incetta di premi ai David

Sembra essere scoppiata una vera e propria bomba mediatica, in senso buono, a seguito della notizia dell’assegnazione di ben tre David di Donatello per il film di Paolo Virzì, di cui, forse, qualche mese fa non si era parlato abbastanza, ma che adesso è arrivato prepotentemente all’attenzione di tutti coloro che si ritengono – più o meno – appassionati di cinema.

A incrementare l’attenzione dei magazine e delle televisioni quest’oggi è stato il, già definito, “pazzo discorso” di Valeria Bruni Tedeschi, vincitrice del premio come migliore attrice protagonista per l’interpretazione del personaggio di Beatrice Morandini Valdirana, una nobile decaduta che si ritrova in una casa di custodia dopo due condanne per bancarotta fraudolenta, derivanti da un rapporto burrascoso ed extraconiugale con un truffatore.

Il discorso della Bruni Tedeschi è stato davvero eccezionale e ha messo in luce un lato di lei che la fa assomigliare incredibilmente al personaggio del film per il quale ha ottenuto il prestigioso riconoscimento. Ha ringraziato davvero tutti, da Leopardi alla Magnani, da Pavese alla Ginsburg, oltre alla sua famiglia, sciorinando una parola dopo l’altra tra lacrime e risate. Ha parlato di un paese dei sogni e di un’altra vita riferendosi ai progetti dei registi e poi al cinema in generale. Le sue parole sono state toccanti e penso che si debba partire da esse per poter parlare de “La Pazza Gioia”.

Il film, girato nel 2015 in un’ambientazione unica e suggestiva come lo sono le città e i paesi della Toscana, ha davvero toccato il cuore degli spettatori. Ha parlato di follia senza rivelarsi un film folle. Troppe volte per lanciare un messaggio i registi trasformano e mutano i loro film per renderli più fedeli al messaggio. E questo avrebbe potuto portare Virzì a rendere la sua opera un film frammentario ed insensato, in cui tutta l’attenzione venisse attirata dalle riflessioni e dalle eccentricità delle protagoniste, Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi ndr.) e Donatella (Micaela Ramazzotti). E invece le riflessioni, gli aforismi, le frasi, i messaggi del film sono stati calati in un contesto che girava alla perfezione, come un orologio. Le loro storie avevano un senso, la loro follia aveva un senso. E in fondo che cos’è la follia, viene da chiedersi dopo aver visto il film? Forse è solo una fuga dalla realtà per cercare la felicità, come sembrerebbe suggerirci Beatrice. O forse è semplicemente un modo di vivere la vita diverso dagli altri. Una sofferenza più vivida, un sentire la vita in modo più viscerale, come sembra accadere a Donatella.

La storia di Donatella e del tentato omicidio-suicidio perpetrato ai danni del suo stesso figlio è il fulcro della storia, che ci viene disvelato a poco a poco. Comprendiamo, però, che dietro un gesto apparentemente folle e privo di giustificazioni, una vera giustificazione in realtà c’è. C’è la paura di perdere l’unico amore che Donatella, depressa e allo sbando, poteva avere nella sua vita, ovvero quello del figlio. E questo “troppo amore” viene proposto dalla regia con una delicatezza e un coinvolgimento che impediscono allo spettatore di giudicare. Anzi, lo spettatore non può fare a meno che sentirsi pazzo come le due protagoniste. Non può fare a meno di sentire tutto il dolore provato da Donatella e non può fare a meno nemmeno di chiedersi se non siamo tutti potenzialmente folli. La vita ci fa paura e ci fa soffrire in modi bizzarri, imprevedibili e crudeli. E, alla luce di ciò, possiamo davvero giudicare coloro che ricercano nell’insensatezza una medicina – quasi un placebo – a questa sofferenza che li affligge?

“Basta di stare male”, questo ripete più volte Donatella ed è davvero questo il messaggio che la pellicola di Virzì vuole dare. Non dobbiamo sprecare la vita a stare male, ma dobbiamo cercare in tutti i modi di vivere bene, di apprezzare le gioie della vita, di curarci se siamo ammalati, di rimetterci in piedi se siamo al tappeto.

E questo messaggio viene impresso a fuoco nella mente dello spettatore, senza nascondersi dietro all’euforia e al delirio delle protagoniste. “La Pazza Gioia” è un film che parla allo spettatore e lo fa con lucidità; potremmo quasi parlare di lucida follia. Virzì ha mostrato quanto il potere di raccontare il dolore e la vita sia ancora sufficiente a toccare e travolgere tutti, di come non serva strafare per emozionare e per rendere vividi i personaggi che vengono portati sul grande schermo (sebbene gran parte del merito vada certamente riconosciuto alle grandi performance delle due attrici).

Per tante ragioni, come quelle appena elencate, “La Pazza Gioia” risulta un film assolutamente da non trascurare, che ha certamente meritato i riconoscimenti ricevuti. E possiamo solo augurarci di vedere più spesso opere che ci facciano entrare in “un’altra vita”, in un “mondo di sogni”, che, però, riesca con convinzione e concretezza a parlarci della vita vera e reale che tutti noi affrontiamo ogni giorno.

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