Sharp objects, recensione

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Lo dico subito: per me Sharp objects è un capolavoro.
A livello di regia, di fotografia, di musica e di interpretazione è veramente il meglio del 2018 (tra le serie se la gioca con Patrick Melrose).

E’ una serie estremamente femminile, molto elegante, ma anche brutale, tragica, è una saga familiare e un fermo immagine sull’autolesionismo – praticamente dalla prima all’ultima puntata. E’ anche fortemente iconica: quando spegni lo schermo resti con la foto delle ragazzine sugli schettini* stampata nel cervello.
Le scene girate di notte ti lasciano il fresco sulla pelle, l’eleganza dei fari accesi, i corpi che ondeggiano davanti a sfidare il buio, a inseguire le salite, i giochi di luce e ombra che lanciano le gambe così sottili sui pattini, mentre le scene diurne boccheggiano sotto il sole accecante e ancora quei pattini che scorrono veloci sull’asfalto bollente, il rumore ipnotico delle rotelle, i movimenti lenti, le geometrie, le braccia che cercano l’equilibrio, i capelli che si attaccano per il sudore.

Sharp objects é stata da molti interpretata come una serie investigativa, un poliziesco, ma non lo é affatto. Sharp objects é interamente centrata su Camille Preaker, interpretata da una meravigliosa Amy Adams (silenziosa presenza vestita di nero, che puzza di vodka e tabacco), parla del suo corpo e i suoi fantasmi, sullo sfondo ci sono degli omicidi: due ragazzine vengono brutalmente uccise nella sua città natale, così viene spedita a forza a cercare notizie per scriverci un buon articolo, ma non ha nessuna voglia di tornare in quel buco di culo e soprattutto non ha voglia di rivedere sua madre.

Così Camille si infila di nuovo nella casa materna, o almeno ci prova, perché non è facile stare, infatti, entra, esce, si ferma, sgattaiola via, scappa, fugge da tutto e da tutti. Fa qualche domanda in giro, ad un certo punto scatta pure un po’ di sesso con “Kansas City”, un detective inviato per investigare sugli ultimi omicidi. Ma è solo una valvola di sfogo, Camille non si fa vedere e non si fa toccare: non vuole nulla di tutto ciò, non da lui almeno. Perché sul finire andrà proprio a beccare quello che ha subito il suo stesso danno – la perdita di un fratello/sorella. Perché le persone danneggiate, si riconoscono tra loro, a naso, dove c’è danno si aggiunge altro danno e anche se poi si sta peggio, il danno al quadrato è davvero inevitabile, una calamita direi, è uno fammi stare male con tutto l’amore che c’è, è un buco nero, ma ci siamo dentro in due, tienimi stretta che ti tengo stretto. Così la becca proprio Kansas City a letto col sospettato, tra l’altro un ragazzo più giovane di lei. E oltre all’umiliazione, oltre all’autolesionismo, alla terribile storia familiare, si aggiunge l’infamia della “puttana”. Quanto è facile questa parola sulla bocca della gente, quanto è dura portarsela addosso e scappare via per nascondersi in una bottiglia di vodka, quanto è dura fare i conti con lo schifo di questo mondo e tenerlo a freno in qualche modo, ci si arrangia, si resta in piedi più morti che vivi, ma si tira avanti, e se si finisce nell’autolesionismo – è stato davvero il meglio che si è riusciti a fare.

Giorno dopo giorno, Wind gap si rivela per quello che è. Camille ci porta a spasso nell’ipocrisia bigotta delle piccole cittadine americane, dove si conoscono tutti, e lo fa attraverso una mappa: scritta sul suo corpo, nel corso degli anni, parole su parole, taglio su taglio in un silenzio assordante. Camille vestita di nero, con le maniche lunghe e i pantaloni lunghi a nascondersi e a investigare sulle atroci morti di due ragazzine – con il pensiero sempre rivolto a sua sorella, morta anche lei molti anni prima. Camille che alle 9.00 del mattino è a fare scorta di vodka, mentre il tizio del 24h butta l’occhio all’orologio: ed è l’ennesima condanna.

Gli omicidi restano sullo sfondo, solo alla fine la regia si concentra su questi ultimi, ed è questo il punto geniale: la serie vira dal diario intimista al giallo nelle ultime due puntate, lo fa con grazia e abilità, tanto che praticamente nessuno ha capito come diavolo inquadrare la serie. Ma non è l’unico punto geniale, nell’ultimo episodio si arriva all’arresto della madre di Camille, Adora (ossia una superba Patricia Clarkson), per gli omicidi delle due ragazzine oltre che per l’omicidio della sua stessa figlia e il tentato omicidio delle altre due figlie. La dolce ed impeccabile Adora si scopre (non è mica troppo una sorpresa a dirla tutta) essere affetta dalla sindrome di Münchhausen per procura, un simpatico disturbo mentale che spinge a curare (fare ammalare) in maniera ossessiva e dannosa i propri figli, spesso solo per attirare l’attenzione solo su se stessi. Mentre Perry Como si sgola in “It’s impossible” passa da casa Kansas City e chiede di Camille, la sua macchina è lì, ma non gliela fanno vedere, è fuori da amiche. Amiche? Camille è al piano di sopra, avvelenata e agonizzante si trascina su quei pavimenti freddi e malati, è stremata, non ha le forze per gridare, sua sorella è succube della madre e invece di chiamare aiuto resta a giocare con le bambole. E’ un incubo, ma alla fine sembra risolversi tutto. Sembra perché, se andiamo oltre ai titoli di coda, capiamo molto di più. Adora ha sì ucciso sua figlia e tentato di avvelenare le altre due, ma molto probabilmente non ha nulla a che vedere con gli altri due omicidi: dietro a questi sembra, infatti, celarsi Amma – sorellastra di Amy – e le sue amiche. Su questo ultimo dettaglio ci si sono scervellati in tanti, in molti hanno trovato la serie inattendibile e senza logica: ai più pare impossibile che una quindicenne mingherlina possa strappare via i denti di due sue coetanee con il solo ausilio di una pinza. Invece. Invece, io ci credo, perché senza andare troppo in là nel tempo e nello spazio a Novi Ligure nel 2001 due diciassettenni uccisero a coltellate la madre di lei (40 coltellate) e il fratello (57 coltellate): ci credo perché la furia omicida è forte, soprattutto se abusi di sostanze. Amma in tutta la serie non pare nemmeno in un momento una persona normale, sembra sempre o ubriaca o folle, certo ha il gusto per la trasgressione delle ragazzette di provincia, ma non è solo quello, c’è di molto di più. Amma ha sempre uno sguardo particolare, il modo in cui sceglie le parole e le pronuncia, il modo in cui si muove è sempre inquietante e spaventosa. Bella, giovane e spaventosamente pericolosa.

Ci sarebbe ancora molto da dire sulle inquadrature, le immagini evocative, i continui flashback, sulla musica e sul vagabondare in auto coi finestrini abbassati, ma non voglio guastare quest’eco. Aggiungo solo che i suoni in questa serie sono veramente importanti: i frusci dei vestiti, il ronzio pigro delle pale del ventilatore, i sospiri, le ruote sull’asfalto. C’è tanta cura, dedizione e manicalità in quei suoni, che riportano tutta l’atmosfera di Wind Gap e di Camille, tanto che se allungo la mano la trovo riflessa nello specchio, incredibilmente vicina.

E’ una storia tutta al femminile, gli uomini qui sono solo ombre, sullo sfondo, a volte si affacciano timidamente, a volte con la solita violenza del possesso ignorante, banale – penso all’episodio del bosco quando Camille era giovanissima. Gli uomini qui non contano nulla: non ha peso Alan, il marito di Adora, come non ha peso Bill, lo sceriffo-amante di Adora, Kansas City poi vale meno di niente, esattamente come le sue parole. Il capo di Camille è l’unico che si salva, una figura paterna che la segue dall’inizio alla fine e la salva. O almeno è quello che si spera.

(*)qua a milano quando io ero piccina si chiamavano “schettini”.

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